Milano, 6 agosto 2013 - Il
vento nella Baia di San Francisco si abbatte sul Golden Gate con la
stessa violenza con cui i portuali si fanno largo a spintoni nei bar a fine
turno. Le raffiche frustano le placide acque del mattino formando bianche
ochette e rendendo smerigliata la superficie del mare. Le folate scuotono le
colline regali di Angel Island e fischiano attraverso le finestre spettrali di
Alcatraz, spazzando via i cappellini da baseball dei turisti del Midwest. Jimmy Spithill conosce bene quel vento, lo stesso che gli sferza il
viso ogni mattina di allenamento, e racconta a The Red Bulletin perché nonostante la
fatica e il sacrificio ogni giorno non vede l’ora di mettersi in mare.
Sull’acqua le barche dondolano e
i bordi delle loro vele sbattono sotto i colpi delle violente raffiche di vento.
Ma sul catamarano da 72 piedi (22 metri) con l’ala rigida di 260 metri quadri
che le supera a tutta velocità, non si sente alcun rumore. L’imbarcazione che il comitato dell’America’s
Cup spera possa inaugurare una nuova era della vela inizia a correre non
appena soffia la prima brezza. Gli 11 membri dell’equipaggio si rintanano
vicino a uno dei due scafi. La loro presa è ben salda mentre si tengono a
coppie di due attorno alle quattro maniglie cigolanti attaccate agli argani
all’avanguardia. È questione di centimetri e Spithill guarda la vela e l’ala e poi con lo sguardo scruta
l’orizzonte, verso la rotta da seguire.
I grinder, che azionano le vele, fanno qualche giro con movimenti
sincronizzati, spostando la vela e l’ala dentro e fuori. L’unico suono è il
cigolio melanconico della manovella dell’ala mentre lo scafo comincia a
sollevarsi dalla superficie dell’acqua. La manovra è chiamata foiling: prima lo
scafo sopravento, poi quello sottovento, si sollevano su 250 kg di deriva a
baionetta in fibra di carbonio, permettendo alla barca di raggiungere la
velocità di 39 nodi (72 km orari).
L’AC72 si mantiene perfettamente
stabile sulla superficie dell’acqua mentre la velocità aumenta e diminuisce.
Alla prima parola di Spithill l’equipaggio scatta in azione. Comincia una
difficile coreografia mentre gli uomini si muovono per tutta la nave, slittano
giù sulla rete e si avvinghiano all’altro scafo sotto le frustate delle onde.
La barca inizia una lenta virata e altri si fissano allo scafo, incluso
Spithill che si unisce a loro sull’altro lato. Stabilizza il timone e naviga di
bolina verso Fort Mason. Dietro di lui, tre barche con il logo Oracle sterzano
dentro e fuori la scia dell’AC72, lanciate all’inseguimento a tutta velocità
come una sfilata di automobili, sforzandosi di tenere il passo.
James Spithill è il timoniere del
team americano Oracle Racing, attuale detentore dell’America’s Cup.
L’australiano dai capelli rossi è diventato il più giovane timoniere nella
storia dell’America’s Cup quando ha guidato il trimarano di Larry Ellison alla
vittoria nella competizione del 2010. Il mese prossimo lui e gli 11 membri del
suo equipaggio affronteranno il team vincente tra Luna Rossa, Artemis
Racing e Emirates Team New Zealand nella finale della 34° edizione
dell’America’s Cup.
“Non credo che nessuno, nemmeno i
velisti professionisti, avrebbe mai potuto prevedere che saremmo arrivati dove
siamo oggi”, afferma il 34enne Spithill. “Da dove siamo partiti a dove siamo
arrivati c’è stato un salto di qualità verticale. Non è stato un lento
progresso: abbiamo fatto il botto! È come se avessimo tirato giù un muro di
mattoni.”
Ma l’impennata delle prestazioni
degli AC72 ha anche un rovescio della medaglia, come ha dimostrato il tragico
incidente di Artemis Racing. Lo scorso maggio il catamarano del team svedese si
è spezzato in due durante una sessione di allenamento sottovento dell’America’s
Cup. Nell’incidente è morto il campione britannico Andrew Simpson, medaglia
d’oro olimpionica, rimasto intrappolato sott’acqua. La sua morte ha dato adito
a una serie di proposte di modifica delle regole di gara, tra cui la riduzione
della velocità massima da 33 a 23 nodi (da 61 a 43km/h). È anche stato
stabilito che i membri dell’equipaggio debbano indossare giubbotti di
salvataggio con bombole di ossigeno sul lato esterno, accorgimento che può
garantire un minuto di ossigeno nel caso finiscano sott’acqua.
Ma incidenti di questo tipo sono
all’ordine del giorno, e Spithill lo sa. Nell’ottobre 2012 lui e il suo
equipaggio sono stati fortunati a sopravvivere a una spettacolare scuffia
quando, l’ottavo giorno di allenamento il loro AC72 si è ribaltato mentre lo
skipper attuava la manovra più pericolosa – la brusca virata da sopravento a
sottovento – catapultando gli 11 velisti nell’acqua gelida della baia prima che
lo scafo si spezzasse in due. Ci sono volute più di sette ore per ripescare
l’imbarcazione.
I pericoli insediano tutti gli
sport di grande potenziale. Ciò che queste imbarcazioni chiedono ai velisti è
più di quanto nessuna barca abbia mai preteso e il loro design è ineguagliato
in quanto a innovazione tecnologica: sono state create proprio per raccogliere
attorno a sé il clamore e il pubblico televisivo di cui l’America’s Cup e
l’intero mondo della vela hanno disperatamente bisogno per giustificare i
centinaia di milioni investiti ogni anno.
Nessuno sa questa cosa meglio di
Spithill, che giura di ricordare il giubilo che ha accolto la seconda vittoria
dell’Australia nel 1983, la prima volta che una barca non statunitense si è
aggiudicata il trofeo dalla gara inaugurale del 1851. Spithill aveva tre anni.
Sette anni dopo ha vinto la sua prima gara su una scialuppa di legno che lui,
sua sorella e suo padre avevano trovato su un mucchio di rottami. Oggi manovra
il timone di una barca che costa qualcosa come 10 milioni di dollari e comanda
un equipaggio fatto di atleti selezionati provenienti da 8 paesi del mondo. Ne
ha fatta si strada.
L’emozione
“Ero intimorito la prima volta
che ci ho messo piede”, dice Spithill parlando del suo AC72. “Abbiamo passato
ore interminabili a progettarlo con gli ingegneri, le previsioni, i progetti
CAD. Ma quando ci sali e la barca comincia a muoversi è come passare da un pony
a un purosangue. Non appena tocca l’acqua la senti come se fosse viva e pronta
a scattare. Basta una brezza da 5 nodi. È molto impegnativa perché richiede
massima energia e concentrazione; una piccola svista e sei fregato. Senti le
lamine che cominciano a ronzare quando vai sopra i 40 nodi ed è come se fossi
in mezzo a un uragano. I ragazzi lavorano sodo e tu sei lì sul bordo, e quando
arrivi alla fine ti guardi intorno e… sì, vorresti trattenere per sempre dentro
di te l’emozione che provi al traguardo.”
Il rispetto
“Mai sottovalutare la barca.
Sempre trattarla con rispetto e mai rilassarsi. Ci vuole massima
concentrazione. Con altre imbarcazioni una pausa relax te la puoi prendere. Qui
è diverso. È proprio il momento in cui può accadere un incidente. La maggior
parte delle volte non hai nemmeno il tempo di gridare “Attenti!”. Devi prendere
tutte le decisioni a sangue freddo e i tuoi compagni devono essere pronti anche
quando sono completamente esausti. È tutta questione di una frazione di secondo
e hai bisogno di poter contare su gente in gamba. Puoi avere il ragazzo più allenato
del mondo, ma se non possiede una mente strategica o non è un velista
abbastanza esperto da prevedere quel che può accadere, non può farcela. Oppure
puoi avere lo stratega più brillante, ma avrà subito l’occasione di dimostrare
se è anche un grande atleta. Abbiamo avuto a bordo dei campioni di football, di
rugby o di rally e sono rimasti sconcertati. Diciamo che stiamo finalmente
iniziando a guadagnare una vera credibilità, anche nei confronti di altri
sport.”
I rischi
“Se sali a bordo di una multiscafo
da 72 piedi in fibra di carbonio con un’ala di 131 piedi e non pensi che ciò
implichi dei rischi, allora c’è qualcosa che non va. Noi abbiamo sempre saputo
che avremmo potuto scuffiare. Ma i velisti stanno sulla barca perché è quello
che vogliono. Comprendono che non è privo di rischi, niente lo è. Ma lo fanno
perché sono persone che amano uscire dalla loro
comfort zone, spingersi fino a superare i propri limiti e alla fine
imparare qualcosa di più su se stessi. La manovra più pericolosa è quando poggi
e viri da sopravento a sottovento con l’ala fuori. Se non fai niente, la barca
sprofonda. Ci vuole un’ottima coordinazione, ma se ce la fai sei ricompensato
con un’accelerazione incredibile – più o meno da 10 a 40 nodi. È una sensazione
pazzesca.”
La responsabilità
“Il rischio è alto. Fare una
scelta sbagliata su un AC72 potrebbe essere fatale. E di solito la decisione la
devi prendere in una frazione di secondo. Devi prevenire ogni eventualità.
Senza dubbio oggi c’è un maggiore senso di responsabilità che in passato, il
che non è affatto comune negli sport di squadra. Nella MotoGP o nella Formula
Uno se il pilota commette un errore si fa male. Ma non ci sono molti sport in
cui un errore individuale può mettere tutti in pericolo. In effetti non me ne viene
in mente nessun altro. Di certo questa consapevolezza implica molta
concentrazione.”
La Baia
“Se sei un marinaio e conosci le
acque intorno a San Francisco, sei pronto a tutto. Avrai acquisito molta
sicurezza dopo essere stato messo a dura prova tra la nebbia, i traghetti,
Alcatraz e le correnti. La personalità della Baia cambia di giorno in giorno. È
una vera sfida. Quando arrivi al molo è come se avessi compiuto una missione, come
se avessi vinto una battaglia. È un’esperienza che ti chiede molto ma alla fine
ti ricompensa a dovere. La Baia di San
Francisco è la location più intima e affidabile per la America’s Cup. In
settembre i venti soffiano sul Golden Gate a una velocità media di 20 nodi,
toccando i picchi nel primo pomeriggio. Quest’anno la dimensione delle barche -
il doppio rispetto agli AC45 - e la rotta, che le porta vicino alla penisola di
San Francisco, garantiranno ai fan sulla riva uno spettacolo pazzesco.”
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